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Procedimenti ambientali: buona fede del contravventore, che peso ha in tribunale?

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Il diritto dell’ambiente continua ad essere aggiornato, modificato, integrato e sostituito: questa situazione, unita al fatto che possono esistere discipline differenti da regione a regione, e che anche la normativa nazionale è scritta in modo non sempre chiaro, non facilita certo la sua osservanza e la sua applicazione.
In altri termini, è estremamente facile sbagliare ed incorrere in sanzioni, ma la complessità e la nebulosità della normativa non sono motivazioni valide per sfuggire alle sanzioni. Non si può ricorrere alla buona fede, per difendersi innanzi al giudice. Ma cosa significa, in concreto, essere in buona fede?

Buona fede e orientamenti giurisprudenziali: due sentenze a confronto


Per affrontare questo argomento occorre partire da due importanti sentenze di qualche anno fa della Corte di Cassazione (n. 2996/2017 e n. 2246/2017), che hanno ribadito un concetto fondamentale: “Non si può ricorrere alla buona fede, per difendersi innanzi al giudice”.
Tale concetto vale per chi gestisce in modo professionale i rifiuti, ma è applicabile a tutti coloro che, a diverso titolo, devono sottostare alle stringenti regole del diritto dell’ambiente.
I due protagonisti delle sentenze avevano effettuato:
• in un caso, attività di trattamento e recupero di rifiuti speciali non pericolosi,
• nell’altro, raccolta, trasporto e commercio non autorizzati di rifiuti metallici, in assenza di titolo autorizzativo e di iscrizione nell’Albo Nazionale dei Gestori ambientali.

Che cos’è la buona fede nel contesto giurisprudenziale?

È la stessa Cassazione che ce lo ricorda, che nel redigere il testo delle sentenze, sembra quasi ispirarsi ad Arthur Conan Doyle, che ne “Le avventure di Sherlock Holmes” sosteneva che “nulla è più innaturale e sfuggevole dell’ovvio”.
Ciò che è ovvio per un soggetto (ad esempio, il legislatore, nel momento in cui legifera), può non esserlo, e spesso non lo è, per un altro (ad esempio, per gli operatori del settore, nell’ osservare le leggi).
E in assenza di una normativa chiara, potete presumere di poter agire correttamente, salvo poi scoprire che ciò che consideravate corretto era in realtà frutto di una vostra libera (o giustificabile) interpretazione.
Con tutte le conseguenze burocratiche, amministrative, temporali, sanzionatorie ed economiche del caso.

Buona fede e dovere di informazione – sentenza di Cassazione n. 2996/2017

Nella prima delle due sentenze citate in apertura (n. 2996/2017), la Cassazione afferma che “per il comune cittadino tale condizione [la buona fede] è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto «dovere di informazione», attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia.
Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica.
Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994, P.G. in proc. Calzetta, Rv. 19788501)”
.
Quindi, prosegue la Cassazione:
“l’inevitabilità dell’errore sulla legge penale non si configura quando l’agente svolge una attività in uno specifico settore rispetto al quale ha il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente, e
• l’ignoranza, da parte dell’agente, sulla normativa di settore e sull’illiceità della propria condotta è idonea ad escludere la sussistenza della colpa se indotta da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della pubblica amministrazione, ovvero ad una precedente giurisprudenza assolutoria o contraddittoria o ad una equivoca formulazione del testo della norma”
.
Inoltre, la prova della sussistenza della buona fede deve essere fornita dall’imputato, il quale ha anche l’onere di dimostrare di avere compiuto tutto quanto poteva per rispettare la norma violata.

Buona fede e la richiesta di informazioni alle Autorità – sentenza di Cassazione n.2246/2017

Nella seconda sentenza citata (n. 2246/2017), la Cassazione ha precisato che “né il carattere di frammentarietà di una disciplina normativa, né il fatto che sull’applicazione della stessa si siano formati diversi orientamenti, tanto da giustificare l’emanazione di una norma di interpretazione autentica, possono essere invocati a causa di ignoranza incolpevole della legge penale, o comunque della legge integratrice del precetto penale, facendo venir meno l’elemento soggettivo del reato, quando il soggetto che svolga professionalmente una specifica attività non abbia dimostrato di aver fatto tutto il possibile per richiedere alle autorità competenti i chiarimenti necessari e per informarsi in proprio, ricorrendo ad esperti giuridici, con ciò adempiendo allo stringente dovere di informazione sullo stesso gravante”.

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