Non sono sottoprodotti i materiali classificati all’origine come rifiuti

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La Corte di Cassazione Penale, sez. III, con la sentenza n. 40109 del 6 ottobre 2015, non ha accolto il ricorso di una società che chiedeva di qualificare il materiale lavorato nel proprio stabilimento, come sottoprodotto e non come rifiuto pericoloso, affermando che i materiali venivano classificati all’origine come rifiuti da parte del produttore, che si occupava di inviarli alla società in questione.
Pertanto, non era possibile mettere in dubbio che si trattasse di rifiuti e non di sottoprodotti.

Il fatto
Una società è stata condannata, in primo e secondo grado, per la violazione delle prescrizioni contenute nel provvedimento amministrativo di autorizzazione all’esercizio dell’attività di recupero dei rifiuti non pericolosi (art. 256, c. 4, in relazione al D.Lgs. n. 152 del 2006, comma 1, lett. a).
Per questo motivo, l’impresa ha presentato ricorso per Cassazione, sostenendo che la corte territoriale avesse erroneamente e illegittimamente valutato e qualificato come rifiuti non pericolosi, il materiale (come carta e cartone, plastica e gomma di scarto) rinvenuto presso il proprio stabilimento.
I giudici, a detta della ricorrente, avrebbero fondato la propria decisione sulla base di un verbale dell’ARPA, da cui emergeva che l’attività della società non consistesse soltanto in una trasformazione volumetrica, ma in una separazione di rifiuti, i quali venivano poi smaltiti; ed invece, la società sosteneva che il ciclo lavorativo consisteva nella mera frantumazione e macinazione dei residui di produzione, senza produrre rifiuti.
La società ha definito il materiale, frutto della lavorazione, come sottoprodotto, e non come rifiuto non pericoloso, perché macinato a freddo, senza aggiunta di alcun additivo o altri agenti esterni. Pertanto, si sarebbe trattato di un trattamento rientrante nella normale pratica industriale; inoltre, dall’interpretazione della Commissione UE scaturirebbe un’estensione della nozione di sottoprodotto rispetto a quella di rifiuto, in quanto non sono stati ancora varati i decreti previsti dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 184 bis, comma 2.
Con un secondo motivo, la ricorrente ha lamentato il vizio, in relazione all’art. 184 bis, comma 2, del D.Lgs. 152/2006, sulla qualificazione del materiale come rifiuto anzichè come sottoprodotto.
La corte territoriale avrebbe attribuito la natura di rifiuto non pericoloso al materiale, anziché quella di sottoprodotto; la ricorrente invece afferma, sulla base della Comunicazione della Commissione CE del giugno 2012 e interpretativa della direttiva 2008/98/CE, che il trattamento di mera frantumazione e macinazione non costituirebbe un processo che esula dalla normale pratica industriale, ma rappresenterebbe un semplice intervento per rendere quel materiale utilizzabile in un nuovo ciclo produttivo.
La ricorrente, fa riferimento anche alla Norma UNI 10667 del 2010, che definisce come sottoprodotti le materie plastiche prime-secondarie all’origine, come i materiali costituiti da residui, sfridi e scarti industriali derivanti dalla produzione, ed immessi nel mercato direttamente senza additivi. Si fa salva l’eventuale macinazione, poiché non altera le qualità compositive ed ambientali del materiale.
Con il terzo motivo, la società sostiene un vizio di motivazione circa l’art. 183, lett. a),del D.Lgs. 152/2006, per illegittima ed erronea interpretazione estensiva della nozione di rifiuto da parte della Corte d’appello, la quale ha affermato che debba ritenersi rifiuto tutto ciò che non è sottoprodotto.
Nel quarto motivo, la ricorrente sostiene che, sulla base dell’art. 256, commi 1 e 4, del T.U. ambiente, il quale presuppone la violazione di prescrizioni autorizzative relative alla gestione di materiali o sostanze che hanno la natura di rifiuto, ci sarebbe un difetto sull’elemento oggettivo del reato, trattandosi, nel caso di specie, di sottoprodotti.

Secondo la Cassazione
Secondo gli Ermellini, il ricorso è infondato e va rigettato. Sul primo motivo di ricorso, concernente l’erronea qualificazione del materiale come rifiuto non pericoloso e non come sottoprodotto, i giudici di legittimità hanno affermato che, sulla base di due sentenze (Sez. 3, n. 25203 del 26/06/2012; Sez. 3, n. 20886 del 15/05/2013), l’attività non potesse rientrare nella nozione di “normale pratica industriale”, trattandosi di materiali che giungevano in azienda accompagnati da formulari di identificazione quali rifiuti e materiali in conto lavorazione, per l’appunto granulato e non sfridi di lavorazione.
Pertanto, si sarebbe trattato di rifiuti in ingresso, come previsto dal formulario di identificazione, che necessitavano di essere lavorati e quindi non poteva applicarsi l’art. 184 bis del D.Lgs. n. 152 del 2006.
I giudici hanno osservato che ci sono state, in dottrina e giurisprudenza, posizioni divergenti sulla qualificabilità dei materiali come rifiuti o sottoprodotti; questi ultimi, per essere tali, non devono essere sottoposti a un trattamento diverso dalla normale pratica industriale.
Per tale ragione, il Collegio ha ritenuto di dover approfondire gli interventi legislativi su questa materia.

La normativa in materia di rifiuti e sottoprodotti
Il D.Lgs. n. 205 del 2010, ha apportato alcune modifiche rilevanti al Codice Ambientale, tra cui la modifica della nozione di sottoprodotto, con riflessi anche sulla definizione di “materia prima seconda all’origine”. Invece, il D.M. 5 febbraio 1998 prevede che le materie prime seconde devono risultare conformi alle specifiche Uni Uniplast 10667.
Soffermandosi sulla nozione di sottoprodotto, introdotta dal D.Lgs. n. 205 del 2010, art. 12, i giudici di legittimità hanno affermato che i beni concepiti come scopo primario della produzione, in termini organizzativi e tecnologici, costituiscono i prodotti industriali di un’azienda; invece, gli articoli o beni che non ricadono in tale scopo primario, possono essere definiti come “sottoprodotti”, perché non vengono programmati, ma si generano naturalmente e/o necessariamente, come conseguenza diretta delle materie prime utilizzate, oppure a causa delle tecnologie di processo seguite, purché il “residuo produttivo” di tali lavorazioni possa essere utilizzato o a seguito di trattamenti circoscritti, propri della “normale pratica industriale”.
Così, per “normale pratica industriale” si intendono quei trattamenti o interventi che non incidono o fanno perdere al materiale la sua identità e le caratteristiche merceologiche e di qualità ambientale che esso già possiede, ma che si rendono utili o funzionali per il suo ulteriore e specifico utilizzo, presso il produttore o presso altri utilizzatori (ad es: le operazioni di lavaggio, essiccazione, selezione, cernita, vagliatura, macinazione, frantumazione).
Pertanto, il sottoprodotto non deve essere sottoposto al trattamento di recupero, a differenza del rifiuto, che viene sottoposto a tale trattamento perché si tratta di un residuo produttivo che non ha le stesse caratteristiche di qualità del sottoprodotto. Va sottolineato, però, che sul sottoprodotto sono permessi trattamenti minimi, rientranti nella normale pratica industriale.
La norma UNI 10667 viene invece richiamata nell’allegato 1 del D.M. 5 febbraio 1998, il quale specifica le norme e gli standard prescritti per ciascun tipo di rifiuto e per ogni attività e metodo di recupero degli stessi.
La norma si occupa di classificare le materie plastiche prime-secondarie, ottenute da recupero e riciclo di rifiuti di plastica, con riferimento ai sottoprodotti generati da cicli produttivi o di preconsumo, che l’industria utilizza per la produzione di miscele di materiali e/o di manufatti.
Dove i sottoprodotti sono costituiti da residui, sfridi, e scarti industriali plastici pre-consumo derivanti sia dalla produzione, sia dalla trasformazione senza pretrattamenti, salvo l’eventuale macinazione o altre operazioni di riduzione volumetrica per via meccanica, per ulteriori attività di produzione/trasformazione delle materie plastiche, e che non contengono sostanze estranee al materiale plastico superiori all’1%.

Nel caso in esame
Alla luce di tale normativa, il Collegio ha affermato che nel caso in esame, la questione della natura di sottoprodotto dei materiali trattati, non era rilevabile come tale, in quanto la società si occupava del recupero di rifiuti plastici di cui alle tipologie 6.1 e 6.2 del D.M. 5 febbraio 1998, come era d’altronde possibile evincere dai formulari di identificazione dei rifiuti, i quali giungevano in azienda sotto forma di granulato e non di sfridi di lavorazione.
Del resto, era lo stesso produttore del rifiuto a qualificare i materiali che spediva alla società in questione, come rifiuto.
Così il Collegio ha potuto affermare che, in tema di gestione dei rifiuti, ove i residui della produzione industriale siano classificati fin dall’origine come rifiuti, devono essere sottratti alla normativa prevista per i sottoprodotti (come definiti dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 183, comma 1, lett. n e oggi, D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 184 bis), in quanto la classificazione operata dal produttore esprime quella volontà di disfarsi degli stessi come “rifiuti” in base al D.Lgs., art. 183, comma 1, lett. a) (Sez. 3, n. 32207 del 07/08/2007 – fattispecie in cui un produttore di vetro e prodotti vetrari aveva classificato residui della produzione costituiti da ritagli di PVB, oggetto di transazione commerciale, con il codice C.E.R. 20.01.39 identificativo dei “rifiuti in plastica”).

Tali considerazioni hanno indotto la Corte a ritenere che non è possibile accogliere il ricorso della società, in quanto la natura di rifiuto dei materiali trattati era stata classificata all’origine dal produttore, pertanto la società che li riceveva non poteva porre la questione sulla natura dei sottoprodotti in discussione.

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