I fanghi derivanti dal lavaggio di inerti provenienti dalla coltivazione di una cava non sono rifiuti solo quando essi rimangono entro il ciclo produttivo dell'estrazione e della connessa pulitura, mentre nel caso in cui gli stessi siano sottoposti ad una successiva e diversa attività di lavorazione devono essere considerati alla stregua di rifiuti; è il principio espresso dalla Cassazione penale nella sentenza n. 49985 del 18/12/2015.
Nel caso in esame, al fine di ottenere una più rapida chiarificazione delle acque di lavaggio degli inerti, l'imputato, responsabile di un impianto di cava, disponeva che esse fossero
addizionate e miscelate con prodotti, cosiddetti flocculanti, consistenti in reagenti chimici aventi la capacità di catalizzare il processo di aggregazione dei materiali in sospensione e determinarne la precipitazione nel fluido che li contiene, onde consentirne la più agevole e rapida separazione fisica dal medesimo.
Un tale procedimento, esulando sia dalla
attività di estrazione e
lavorazione degli inerti che dalla connessa loro pulitura, non può ritenersi ricadente nell'ambito del ciclo produttivo della cava, appartenendo, invece, ad una successiva fase volta al più agevole e rapido smaltimento dei residui di lavorazione. Né la qualifica di «rifiuti» può essere superata, eccependo, come fatto dall'imputato, che si trattava comunque di
«sottoprodotti», posto che non è stata provata l'esistenza concreta ed attuale di una successiva legittima riutilizzazione degli stessi (elemento indispensabile).
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