Rischio incendio e comportamento abnorme del lavoratore

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Fra le molteplici modalità attraverso le quali può concretizzarsi il rischio di infortunio sul lavoro, un ruolo di peculiare gravità è senz’altro da riconoscersi all’esplosione o all’incendio di materiali infiammabili.
La casistica giurisprudenziale offre un quadro allarmante dal quale traspare come la scorretta gestione del rischio incendiario, da parte del datore di lavoro e degli altri soggetti obbligati, dia luogo ad eventi di severa entità che spesso non lasciano margine di salvezza ai lavoratori coinvolti.
Anche recentemente la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul caso di un infortunio mortale avvenuto nel reparto di produzioni chimiche di una società farmaceutica.

Estrapoliamo dall’articolo di C. Valbonesi (Avvocato del foro di Firenze, Dottore di ricerca) su Antincendio n.9/2019 la ricostruzione del fatto e dei passaggi in primo e secondo grado.

Il fatto
In particolare, la vittima era addetta alla macchina utilizzata per la centrifugazione dei prodotti chimici con solventi infiammabili ed utilizzata anche per la produzione dell’acido colico. Fra i compiti del lavoratore rientrava quello di tenere sotto controllo la concentrazione di ossigeno e la pressione all’interno della macchina, attraverso l’aggiunta di gas inerti.
Nella sentenza è spiegato con precisone come, prima dell’avvio di ogni ciclo, le norme di sicurezza prevedessero l’obbligo, attuato in via automatica, di “inertizzare l’apparecchiatura”. Il lavoratore addetto era tenuto a caricare progressivamente la centrifuga con dosi parziali della miscela, le quali riempivano la vasca di una dose di prodotto la cui adeguatezza era affidata al controllo visivo dell’operatore (sic).
La vittima, appena entrata in servizio nel turno di notte, procedeva ad eseguire una serie di operazioni all’esito delle quali riavviava la macchina. Proprio in quel momento avveniva l’esplosione: il lavoratore veniva colpito al capo dal coperchio della centrifuga e subito dopo si trovava avvolto dalle fiamme propagatesi rapidamente.
La causa dell’esplosione era da rinvenirsi nella mancata osservanza della corretta procedura di inertizzazione dell’apparecchiatura: era stata rinvenuta chiusa la valvola che consentiva il passaggio dell’azoto nella centrifuga esplosa e il commutatore era rimasto in modalità manuale, fattore questo che aveva consentito l’avvio della centrifuga nonostante la percentuale di ossigeno presente fosse al di sopra dei limiti di sicurezza in ordine al rischio incendio, poi purtroppo verificatosi.
La vicenda processuale giunge alla Suprema Corte con un contrasto fra primo e secondo grado di giudizio.

L’assoluzione in primo grado
Il Tribunale aveva, infatti, assolto gli imputati perché il fatto non sussiste, attribuendo la causa del decesso alla “condotta esorbitante del lavoratore che aveva attuato una procedura del tutto differente rispetto a quella prevista”. In giudici di prime cure ritenevano di non conferire rilevanza causale alla mancata formazione e informazione del lavoratore in ordine alle “corrette modalità di inertizzazione” del macchinario che dovevano essere effettuate nella modalità automatica, giacché relative a dettagli operativi di una fase che egli aveva omesso completamente di attuare. Inoltre, si sottolineava come il lavoratore avesse partecipato a corsi di formazione per un totale di 22 ore.

La condanna in secondo grado
Di contrario avviso la Corte d’Appello la quale, diversamente valutando la dinamica della vicenda senza rinnovare l’istruttoria dibattimentale, provvedeva a condannare gli imputati entrambi a dieci mesi di reclusione, escludendo che l’evento mortale fosse da attribuirsi causalmente al solo contributo eccentrico ed esorbitante del lavoratore.
La Corte d’Appello aveva ritenuto che l’infortunio mortale dovesse ricondursi alla “gestione sconsiderata del possesso delle chiavi che permettevano il passaggio dalla modalità automatica – che garantiva la inertizzazione del macchinario prima dell’avvio del ciclo produttivo – alla modalità manuale”. I giudici di seconde cure hanno ritenuto sussistere la responsabilità di chi non aveva provveduto alla procedimentalizzazione e alla vigilanza in ordine alla custodia e corretto utilizzo della chiave di sicurezza. In particolare, il fatto ed il conseguente decesso dovevano essere attribuiti non solo al soggetto “delegato in materia di sicurezza” in ragione del disinteresse mantenuto nei confronti del delicato utilizzo delle chiavi, ma altresì all’RSPP il quale non aveva segnalato al datore di lavoro la presenza di un tale fattore di rischio.

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Redazione InSic

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