Non partecipare ai corsi di formazione in materia di sicurezza costituisce giusta causa di licenziamento

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Se da un lato incombe sul datore di lavoro l’obbligo di erogare un’adeguata formazione ai lavoratori, incombe su questi ultimi l’obbligo di parteciparvi. Viene quindi confermato il principio per cui l’assenza ingiustificata ai corsi di formazione costituisce grave inadempimento del contratto di lavoro e lesione del vincolo fiduciario tale da giustificare il licenziamento per giusta causa.
Il Commento alla sentenza della Cassazione civile, sez. lavoro, n. 138 del 07.01.2019 a cura degli avv. Francesca Masso e avv. Luca Montemezzo – B&P – Avvocati.

Licenziamento per giusta causa: assenza ingiustificata a corsi obbligatori

Il fatto

Il caso sottoposto all’esame della Corte di Cassazione trae origine dal licenziamento per giusta causa di un lavoratore al quale era stata contestata la (reiterata e prima già sanzionata con provvedimenti conservativi) assenza ingiustificata al corso di formazione obbligatorio in materia di sicurezza sul lavoro organizzato dal datore di lavoro.
L’impugnazione del licenziamento veniva rigettata sia in primo grado che in appello con decisione che la Corte di Cassazione ha, a sua volta, considerato priva di vizi. Per quanto in questa sede rileva, oltre ad aver rigettato le doglianze (di tipo formale) in ordine alla presenza della recidiva ai sensi del CCNL, la Suprema Corte ha ritenuto adeguatamente motivata la valutazione di merito che aveva ritenuto la condotta lesiva del vincolo fiduciario.

Il giudizio di legittimità

La sentenza esamina una serie di doglianze anche di carattere formale in ordine al concetto di recidiva e alla rilevanza, ai fini della valutazione della condotta dal punto soggettivo, anche di episodi pregressi non formalmente contestati e sanzionati. Quel che qui interessa, però, è che, nel solco di una sempre diffusa tendenza alla responsabilizzazione anche del lavoratore, la sentenza conferma la rilevanza, anche a fini disciplinari, della violazione degli obblighi su di lui incombenti a norma del D. Lgs. 81/2008.
Siamo tutti stati abituati a ricordare, quale fosse un obbligo “a senso unico”, l’art. 18, comma 1, lettera l), D. Lgs. 81/2008, a norma del quale “il datore di lavoro … e i dirigenti … devono… adempiere agli obblighi di informazione, formazione e addestramento di cui agli articoli 36 e 37…” e così l’art. 37 del medesimo decreto per cui “il datore di lavoro assicura che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza…” (obblighi rigorosamente applicati e sanzionati, v. Corte di Cassazione n. 3898/2017).
Ciò non di meno occorre ricordare che l’art. 20 del D.Lgs. n. 81/2008, al comma 2, lettera h), impone anche al lavoratore, parallelamente, l’obbligo di “… partecipare ai programmi di formazione e di addestramento organizzati dal datore di lavoro”, obbligo, peraltro e anch’esso, specificamente sanzionato con la contravvenzione prevista dall’art. 59, comma 1, lett. a).
L’obbligo di formazione (per chi la eroga e per chi vi partecipa) costituisce, d’altronde, indiscutibile obbligazione accessoria al contratto di lavoro e, perciò, rilevante in forza anche dei più generali principi civilistici in tema di corretto adempimento del contratto (art. 2104 c.c.), nonché di esecuzione dello stesso secondo correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1375 c.c.).
E’ del tutto ragionevole, quindi, che la violazione di una obbligazione contrattuale, tanto più ove espressamente prevista dalla legge anche quale obbligo sanzionato penalmente, rilevi anche a fini disciplinari tanto da costituire addirittura giusta causa di licenziamento.

La Suprema Corte ha, quindi, ritenuto logicamente corretta la sentenza del Giudice di merito che “… (adeguandosi esattamente al principio secondo cui l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenute nei contratti collettivi, al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo, ha valenza meramente esemplificativa e non esclude, perciò la sussistenza della giusta causa per grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore alle norme di etica o del comune vivere civile -cfr. Cass. 16.3.2004 n. 5372; Cass 12.2.2016 n. 2830; Cass. 18.2.2011 n. 4060) con valutazione, come si dirà in seguito non correttamente censurata ai fini della presenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, ha comunque ritenuto la sussistenza di una grave violazione, da parte del lavoratore, degli obblighi di diligenza e di fedeltà ovvero delle regole di correttezza e di buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., tale da ledere in via definitiva il vincolo fiduciario e di rendere proporzionata la sanzione irrogata”.
D’altronde, il principio per cui le violazioni in tema di sicurezza e, nello specifico, dell’obbligo di formazione, possano costituire giusta causa di licenziamento era già stato affermato in altre occasioni dai Giudici di merito (v. Tribunale di Bari, ordinanza 05.11.2013) e dalla stessa Cassazione che, seppur indirettamente, aveva già evidenziato la gravità di tale condotta con la sentenza n. 15308/2018 (in quel caso, infatti, il licenziamento era stato ritenuto illegittimo solamente in quanto il datore di lavoro non aveva fornito la prova del fatto che il lavoratore fosse effettivamente a conoscenza dell’organizzazione del corso e del relativo obbligo di parteciparvi e che mancasse, quindi, la prova del volontario rifiuto di prendervi parte). Si ricorda, peraltro e ancora, in applicazione del medesimo principio, la sentenza della Cassazione n. 18615/2013 (con la quale è stata confermata la legittimità del licenziamento del lavoratore che ha rifiutato, ripetutamente, di utilizzare i dispositivi di protezione individuale predisposti dal datore di lavoro e obbligatori per l’accesso al lavoro, non osservando l’ordine di servizio di provvedere al loro ritiro), così come la sentenza n. 7338/2017 che ha confermato il licenziamento in fattispecie di grave violazione di una procedura di sicurezza.

Sembra quindi che, partendo dalla giurisprudenza di merito, si sia avviato un percorso interpretativo volto ad abbandonare (o quanto meno ad attenuare) il “modello iperprotettivo” che vede nel lavoratore esclusivamente il soggetto sottoposto a tutela, a favore di un “modello collaborativo”, che lo individua come soggetto attivo del sistema, indispensabile anello di una catena che, diversamente e a parere di chi scrive, non sarebbe mai in grado di garantire quella efficacia ed effettiva sicurezza che costituisce ratio e finalità della normativa antinfortunistica.
E’ chiaro però che, tenendo a mente tutti i precedenti citati, occorre che il datore di lavoro per poter legittimamente esigere dal lavoratore l’adempimento dei propri obblighi, dovrà porsi nelle condizioni di poter dimostrare di aver effettivamente offerto strumenti idonei ed accessibili, così anche di aver preventivamente posto in essere ogni ulteriore azione volta a pretenderne dal lavoratore il rispetto.

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Redazione InSic

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