La linea di demarcazione fra rifiuti e acque reflue

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Torna anche questo mese il FOCUS ACQUE, una rassegna di commenti a sentenze particolarmente significative sull’ inquinamento delle fonti idriche a cura di A.Quaranta (Environmental Risk and crisis manager), che le ha raccolte tutte nell’articolo “Tutela delle acque la complessità della materia e il ruolo giocato dalla giurisprudenza” pubblicato sulla rivista Ambiente&Sicurezza sul Lavoro.

Nonostante sia un tema che dovrebbe essere sufficientemente chiaro, dopo anni di diatribe interpretative e di modifiche legislative (per così dire) paradossali, la questione relativa all’ambito di applicazione fra la normativa sui rifiuti, rispetto a quella sulla disciplina degli scarichi continua a non trovare pace.
Con la sentenza n. 50629 del 7 novembre scorso, infatti, la Cassazione è dovuta intervenire nuovamente in materia, in un caso avente ad oggetto il c.d. “ruscellamento”, affermando che:
– la disciplina delle acque è applicabile in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico, anche se soltanto periodico, discontinuo o occasionale, di acque reflue in uno dei corpi recettori specificati dalla legge ed effettuato tramite condotta, tubazioni, o altro sistema stabile; se, al contrario, presenta momenti di soluzione di continuità, di qualsiasi genere, si è in presenza di un rifiuto liquido, il cui smaltimento deve essere come tale autorizzato, con conseguente violazione dell’art. 256, comma primo, D.Lgs. n. 152 del 2006 (fattispecie relativa a sversamento dei reflui promananti da un depuratore comunale nell’area ad esso circostante e da cui “ruscellavano” invadendo e ristagnando sul fondo confinante);
– in tutti gli altri casi nei quali manchi il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore si applicherà, invece, la disciplina sui rifiuti.
– il D.lgs. n. 4 del 2008 ha delimitato in modo ancor più netto il confine tra scarichi e rifiuti, ripristinando, in sostanza, la situazione antecedente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 152 del 2006. L’attuale disciplina esclude invero, nell’art. 185, comma 2, lett. a), l’applicabilità della normativa sui rifiuti per “le acque di scarico”, a condizione che siano disciplinate da altre disposizioni normative comunitarie, ivi incluse le rispettive norme nazionali di recepimento. Per la nozione di scarico, l’art. 183, lettera hh) rinvia all’art. 74, comma 1, lett. ff), il quale definisce, appunto, lo scarico come “qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti all’art. 114”.
Si tratta, invero, di una situazione che non è possibile qualificare come “scarico”, in quanto, sebbene tale nozione non richieda la presenza di una “condotta” nel senso proprio del termine, costituita da tubazioni o altre specifiche attrezzature, vi è comunque la necessità di un sistema di deflusso, oggettivo e duraturo, che comunque canalizza, senza soluzione di continuità, in modo artificiale o meno, i reflui fino al corpo ricettore (Cass. Sez. 3, n. 35888 del 3/10/2006, De Marco).
È inoltre evidente che il concetto giuridico di scarico presuppone comunque che il collegamento tra insediamento e recapito finale sia stabile e predisposto proprio allo scopo di condurre i reflui dal luogo in cui vengono prodotti fino alla loro destinazione finale, senza interruzioni, ancorché determinate da casuali evenienze quali, ad esempio, la tracimazione dalle trincee drenanti, che abbiano consentito ai reflui un ulteriore percorso.

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Redazione InSic

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