Mobbing, la Cassazione torna sull’onere della prova

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Con due diverse sentenze, la Corte di Cassazione civile torna sul tema del mobbing, chiarendone i caratteri e gli aspetti probatori: si tratta della sentenza della Cassazione Civile, Sez. Lav., 17 gennaio 2014, n. 898 e della sentenza della Cassazione Civile, Sez. Lav., 21 gennaio 2014, n. 1149.


La sentenza n.898/2014 ricorda che, in materia di mobbing, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti:
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Tali elementi vanno provati dal lavoratore in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c. e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla.
Nel caso di specie trattato in sentenza i singoli fatti denunziati non erano ascrivibili ad un unico intento persecutorio: ciascuno in sé considerato non presentavano il carattere della ritorsività ed ostilità.

Con sentenza n.1149/2014 la Cassazione ribadisce innanzitutto come il termine mobbing individui, in ambito lavorativo, un fenomeno sostanzialmente consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere tale soggetto dal gruppo. In difetto di una specifica disciplina normativa, la fattispecie è pacificamente ricondotta a quell’obbligazione di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c.
Anche in questo caso, il lavoratore che si riteneva mobbizzato aveva descritto una serie di condotte e comportamenti posti in essere dal proprio datore di lavoro ed in particolare dai numerosi superiori gerarchici avvicendatisi affermando che. nel loro complesso, tali condotte evidenziavano l’evidente volontà posta in essere dalla società di emarginarlo e discriminarlo.
Già in appello tuttavia si riconosceva però come il ricorrente si fosse limitato a fornire, a distanza di molti anni, una propria versione dei fatti contrapposta a quella della società, sulla base di una serie di affermazioni prive di qualsiasi sostegno probatorio.
In relazione agli episodi più gravi che lo avevano visto accusato di aver aggredito verbalmente e talvolta fisicamente i propri superiori, si era limitato a respingere ogni accusa, negando i fatti, senza tuttavia fornire alcuna valida prova a sostegno della propria versione degli accadimenti.

E quanto alla presunta dequalificazione professionale, già la Corte d’appello aveva ritenuto che nessun concreto elemento di prova fosse stato fornito dal ricorrente il quale non aveva nemmeno analiticamente descritto le mansioni che nel corso degli anni gli erano state affidate e quelle che gli spettavano alla luce del suo inquadramento contrattuale.
Secondo la Cassazione non era emerso alcun intento discriminatorio della società, che si era limitata ad applicare, a fronte di palesi atti di insubordinazione o di violazione delle regole aziendali, la sanzione disciplinare più lieve e talvolta, in caso di mancanza di chiari elementi di prova (nonostante l’accusa provenisse da superiori gerarchici del ricorrente) non aveva provveduto disciplinarmente nei confronti del presunto lavoratore mobbizato.

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Redazione InSic

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